sabato, marzo 25, 2006

Brand debole, sito che non va lontano...

Per il consumatore, il brand rappresenta l’essenza stessa dell’azienda: i suoi valori, il suo mondo di riferimento. E’ il brand che, spesso, più dei prodotti definisce un’azienda. E, infatti, viene spesso affermato che il brand è la risorsa più importante.

E online ? L’essere umano è tendenzialmente abitudinario. Tende a trovarsi dei punti di riferimento, da usare come guida per la sua vita e le sue attività, e a tenerseli stretti.

La fase di esplorazione, di scoperta, di ricerca nel grande mare di Internet è tendenzialmente una fase iniziale. Si usa il web alla ricerca dell’inaspettato, si esplorano molte differenti possibilità. Poi si costruiscono i propri punti di riferimento, si identificano i siti che hanno dimostrato di poter rispondere in modo abbastanza efficace alle proprie necessità. E si tende a diventare progressivamente sempre più fedeli a quei punti di riferimento.
E non citare qui Google è impossibile…

Tutto ciò contribuisce al costituirsi di un ristretto numero di Killer Sites, siti che sono il punto di riferimento per una larga parte di utenti – tipicamente non più di un paio per categoria. Questi siti possono facilmente diventare i dominatori del loro settore e rendono la vita molto difficile ai loro competitors.

Del resto, si sa, lo dicono tutti… questi sono i siti “buoni” … il che equivale a dire che queste aziende sono state capaci di creare un fortissimo brand per i loro prodotti. E questo brand funziona da potente calamita per attrarre sempre più utenti, che a loro volta spargono la voce, innescando un circolo virtuoso (vedi alla voce “Viral Marketing”).

E’ evidente quanto un brand forte sia particolarmente importante per i siti che operano nel settore del commercio elettronico. Una cattiva esperienza su un sito che promette un servizio gratuito non lascia grandi danni. Se però si tratta di soldi, si diventa subito più cauti e si preferisce comprare (specialmente se si usa la carta di credito) da retailer affidabili; la notorietà (e quindi la forza del brand) è un elemento fondamentale per costruire una percezione di serietà e sicurezza.

Come visto, il navigatore poco smaliziato preferirebbe avere degli indirizzi certi cui rivolgersi per avere informazioni / servizio / prodotti di buona qualità a ‘colpo sicuro’. Del resto, ognuno di noi ha la propria lista di negozi ‘reali’ dove sa che il rapporto prezzo/prodotto/servizio è soddisfacente – e quasi tutti tendiamo ad avere quel certo numero di punti vendita che frequentiamo regolarmente. E se vogliamo leggere notizie di carattere finanziario, conosciamo bene quali testate possono darcele ed andiamo in edicola con le idee piuttosto chiare. Tutto grazie (anche) alla forza del brand.

Supponiamo che il nostro sito e la nostra offerta siano “a prova di bomba”. Resta il problema di generare accessi al sito. Siamo messi nelle condizioni standard della maggior parte dei proprietari di siti del mondo. Siamo qualcuno? La gente sa che esistiamo? Speriamo solo nei motori di ricerca?

Possiamo (anzi dobbiamo) costruire la consapevolezza che ci siamo e che dobbiamo essere visitati. La forza del nostro brand aiuta a far scattare l’associazione, nella mente del nostro target, tra una esigenza da soddisfare in rete e… il nostro URL. E se siamo ben presenti nella testa, la gente verrà da sola, senza dover aspettare di vedere il nostro banner per sapere che ci siamo anche noi.

Ma… senza una chiara impostazione strategica non si va da nessuna parte. Senza avere a disposizione le necessarie professionalità nell’ambito del (web) marketing e della strategia sarà molto difficile riuscire ad impostare una operazione di successo. Pensare prima di agire. Possibilmente trovarsi dei partner di alto livello nello sviluppo delle proprie operazioni di web marketing in grado di dare un servizio che non si limiti a grafica e tecnologia.

Insomma, il nostro brand è come la nostra reputazione personale. La faccia ce la mettiamo noi. Se il mercato ci conosce e ci stima verrà a servirsi da noi.

giovedì, marzo 23, 2006

Product Integration: sparisce la differenza tra pubblicità e trama

La storia del product placement (l'inserimento di prodotti, a fini pubblicitari, all'interno di uno spettacolo) è antica almeno quanto il cinema stesso - iniziando con il piazzamento di un detersivo all'interno di uno dei primi film dei fratelli Lumiere nel 1896.

E' però con la TV che la disciplina si sviluppa appieno.
Dopo decenni in cui questa pratica ha vissuto nella sua nicchia, ci troviamo di fronte oggi ad un rinnovato interesse e ad una radicale innovazione.

Non si parla più infatti di Placement ma di " Product Integration".
Il prodotto non si limita più a comparire ma diventa protagonista della trama, del copione, spesso per più puntate dello stesso show.

La compagnia telefonica mobile Verizon ha ad esempio reso il suo servizio di SMS coprotagonista della storia in un popolare telefilm statunitense (integrando il placement con un concorso e altre forme di promozione).
In serial quali 24, Desperate Housewives, Arrested Development o The Office, prodotti e marche si sono intrecciati con le storie dei protagonisti. Nel serial Monk un investigatore privato con tendenze paranoiche pulisce qualsiasi oggetto debba toccare con il disinfettante Lysol di Reckitt Benckiser.

In particolare i reality show appaiono prestarsi bene a questi interventi sulla struttura del programma: in "Survivor" i partecipanti esausti ed affamati venivano rifocillati a base di Doritos, Mountain Dew e birra Bud Light. Nel reality americano "The Apprentice" i partecipanti si sono dovuti misurare nella creazione di una campagna pubblicitaria per il dentifricio Crest (a un costo riportato di 2 milioni di dollari per Procter & Gamble, produttrice del prodotto) o per Mattel e Burger King.

Secondo alcune ricerche, Placement e Integration sono cresciuti del 46 per cento nell’ultimo anno, per un billing di oltre 1.9 miliardi di dollari.
Quasi l’11 per cento del tempo dei programmi US contiene oggi un qualche tipo di riferimento esplicito ad una marca ed alcuni programmi hanno più minuti di placement/Integration di quanti ne abbiano di break pubblicitari.

Il Chairman della catena televisiva CBS è addirittura arrivato a prevedere che il 75% di tutti gli show di prime time arriveranno presto a integrare nella trama prodotti e marchi, dietro pagamento di fee pubblicitari. E’ già non mancano i casi in cui sono le aziende a finanziare nuovi show delle catene televisive, per costruirsi uno spazio di comunicazione da poter controllare più fermamente.

Questo tipo di attività di comunicazione richiede un approccio (e professionalità) abbastanza diverse da quelle della pubblicità classica.

Perché funzioni richiede un processo lungo di interazione tra azienda, emittente e autori, possibilmente da iniziare con molto anticipo, in modo da poter studiare bene come rendere protagonista il prodotto senza trasformare un buon programma in una lunghissima e noiosa televendita e permettere alla marca lo sviluppo di un buon progetto di integrazione con tutti gli altri strumenti della comunicazione.

Il rischio, come ben sanno i comunicatori, è che il committente non sappia fermarsi nel propri desideri e stravolga la trama con inserimenti tanto pesanti e didascalici da azzoppare lo show e causare addirittura un rigetto nel pubblico (basti pensare a molte televendite “classiche”…).
La Product Integration può funzionare solo quando il prodotto riesce ad integrarsi naturalmente e senza forzature nella storia, quando è normale che i protagonisti lo usino e a condizione che ne parlino (bene) come farebbe una persona qualunque, in modo naturale e non evidentemente sponsor-oriented.

Questo nuovo tipo di pubblicità non ha mancato di generare critiche, da parte di gruppi di utenti e di sindacati americani, come quello degli autori.

I primi considerano la pratica come una forma di pubblicità occulta e fanno pressioneperchè la FCC, l'ente che regola l'emittenza televisiva americana, adotti regole più stringenti in materia.

Gli autori sostengono che queste forme di comunicazione ingannano i telespettatori e costringono sceneggiatori e attori a snaturare il proprio lavoro (senza, tra l'altro, avere diritto ad una fetta interessante di questa nuova torta pubblicitaria).

mercoledì, marzo 15, 2006

Se i bimbi sono obesi...si ferma la pubblicità dei Soft Drinks

Il problema dell'obesità nei bambini inizia ad essere una faccenda seria anche in Europa (qui in Spagna siamo al 25% dei bambini che soffrono di questo problema).
Onde evitare che le autorità intervengano con regolamentazioni "pericolose" (l'Unione Europea ha emesso un avvertimento molto preciso e minaccioso) ed evitare anche di avere un problema di immagine, le aziende produttrici di soft drinks appartenenti alla Union of European Beverages Associations (Unesda) hanno deciso di autoregolamentarsi.
Queste aziende (come Schweppes, Coca-Cola, Pepsi...) hanno deciso di bloccare qualsiasi forma di advertising avente come target bambini sotto i 12 anni e attività commerciali dirette nelle scuole elementari.
Una riflessione: mentre è relativamente fattibile discriminare in pianificazione media tra un giovane di 25 anni e uno di 11, vedo molto più complesso evitare le "dispersioni" di una pianificazione mirata sui 13enni o sui 14 enni che sfori sui minori di 12 anni.
Senza contare che i bambini guardano spesso la TV degli adulti e assorbono spot e messaggi "teoricamente" non destinati a loro.
Insomma, l'autoregolamentazione mi sembra pquasi solo una mossa di relazioni pubbliche e di appeasement della EU.

Il problema dell'obesità dei bambini credo si risolva invece solo con un programma di educazione alimentare... dei genitori (ne conosco molti che danno Coca-cola e patatine a bambini di 2 anni... anche prima di andare a letto... e considerando che una coca equivale a piu' di 2 o 3 caffè - vado a memoria - direi che c'è un bel po' di cose da spiegare a questi genitori...)

martedì, marzo 14, 2006

Internet Mobile in tasca...
Per una volta ho deciso di essere tra gli early adopter delle tecnologie (in genere lascio che sia qualcun altro ad essere sulla bleeding edge).

Ho comprato il Nokia 770 - una roba che non e' un telefono, non e' un PDA... ma è quello che da anni desideravo.

Un browser internet tascabile, con uno schermo dignitoso, email, Internet Radio, Video streaming. 
Niente rubrica, calendario, niente programmi (almeno per ora) al di là di quelli focalizzati sul mondo della rete (a parte un paio di giochi).

Si collega a Internet via wi-fi (quindi se si trova un hotspot aperto - e di cui si ha il permesso - ci si collega a gratise) oppure via blutooth collegandosi ad un telefonino.

A questo punto si puo' bloggare (lo sto facendo seduto al bar, senza spendere una lira, mentre ascolto una radio di blues in cuffia e ogni tanto do' un occhio ai flussi RSS che mi interessano di piu')... gestire la mail da remoto... e nella prossima release del sistema operativo arriveranno pare anche la telefonia VoIP e l'Instant Messenger.

E magari, quando sara' riaperto al pubblico Writely (il text editor o line appena comprato da Google) si potranno scrivere documenti... (scherzo, il device non ha una tastiera, ne ha una sullo schermo - lenta da usare - e pare che il riconoscimento della scrittura faccia abbastanza pena... pare pero' sia possibile hackerare il 770 per collegare una tastiera blutooth... io nel frattempo mi tengio stretto il mio Treo600 e la mia tastiera IR, con cui scrivo quasi tutti i miei articoli).

by the way, il Nokia 770 non e' privo di difetti e non e' di certo un device che avra' un larghissimo successo di pubblico a breve. Ma...A questo punto, avere internet sempre in tasca... e magari gratis... cosa potrà comportare?

mercoledì, marzo 08, 2006

Pubblicità TV personalizzata: qualche altra riflessione


La pubblicità televisiva personalizzata, interattiva o meno che sia, è stata per lungo tempo una delle Arabe Fenici del mondo dell’advertising.

Il fascino di questa soluzione è la possibilità di trasformare uno dei Media più mass che esistono in uno strumento di Marketing Diretto, di poter affiancare ad una diffusione a tappeto dello spot uguale per tutti una diffusione più ad hoc di messaggi pubblicitari, segmentando il target in modo mirato. Rendere lo spot un elemento che non sia più percepito come fastidioso o irrilevante – in quanto lontano dai propri interessi – e trasformarlo in un contenuto in grado di interessare (se non proprio di attirare) l’audience.

L’appeal della soluzione è evidente: da una lato permettere agli inserzionisti di raggiungere in modo più mirato e efficiente i propri target, pur sfruttando un media ad alto impatto emotivo. Dall’altro, per i mezzi, permettere di aggiungere valore ai propri spazi e, facendo leva sulle possibilità di personalizzazione cercare di vendere dei contatti a prezzi più vicini ai listini del Direct Marketing che a quelli dell’advertising.

La TV via IP, come accennato nel post precedente, potrebbe essere lo strumento che renderà possibile una maggiore personalizzazione dell’advertising – sia perché consegna “one to one” il messagio, sia perché, specialmente in modelli a pagamento, permette di identificare l’utente abbonato e di raccogliere informazioni su di lui.

Il problema della profilazione
Il primo passo della trasformazione in realtà del grande sogno della pubblicità personalizzata sta nella profilazione dell’utente, raccogliere informazioni sulla singola persona (o nucleo familiare) che guarda la TV, in modo da poterne tracciare un profilo, identificare gusti ed interessi e così via.

Di seguito, definire quali siano i prodotti / servizi che questo singolo “utente” può essere altamente interessato ad acquisire – ovvero quali siano gli inserzionisti per cui questo utente sia LA preda appetibile.

E però evidente quanto il limite del mancato riconoscimento della specifica persona che ha in mano il telecomando (il padre, la madre o il figlio tredicenne) limiti la capacità di costruire profili accurati e di erogare commercial su misura.

Le prime sperimentazioni
Anche se siamo ancora lontani dal modello della comunicazione one to one sulla televisione, sono già partire le prime sperimentazioni – ad esempio a supporto del lancio della linea aerea low cost TED (di United Airlines). In questo caso, sfruttando le possibilità della televisione via cavo, gli annunci comparsi erano personalizzati in base alla città in cui venivano ricevuti. In una fase iniziale da un punto di vista puramente di creatività – ma con una ovvia e facile estensione alla veicolazione di tariffe e promozioni specifiche per ogni singolo centro citttadino servito dalla linea aerea. Oppure per promuovere in tempo reale voli con scarso afflusso o sospendere immediatamente offerte promozionali in corso nel caso di esaurimento dei posti disponibili.

Sempre nel mondo del turismo, un certo numero di inserzionisti sta valutando la possibilità di realizzare molteplici versioni dei propri filmati pubblicitari, ad esempio enfatizzando, in uno spot per un resort turistico, in una versione la dinamicità e l’energia degli sport acquatici, in un'altra versione le attività come il golf o i casinò, in un altra ancora la cucina e il relax – veicolando poi questi commercial in modo mirato alle audience più adeguate.

La necessità di evolversi
E’ presto per dire se la fiammata di entusiasmo sia destinata, come sempre in passato, ad esaurirsi in un nulla di fatto.
E d’altra parte il mondo della pubblicità TV ha conosciuto poche vere evoluzioni nel corso dei decenni.
Se da un lato le emittenti non si può dire che siano state pervase da un senso di urgenza rispetto all’innovazione, dall’altro l’utenza televisiva sembra rappresentare il simbolo stesso della passività, ponendo in dubbio la sostenibilità di modelli interattivi.

Non si possono però ignorare i segnali d’allarme che giungono da oltre oceano, rispetto alla percezione degli investitori pubblicitari sulla capacità di comunicare con efficienze economicamente interessanti da parte della pubblicità televisiva “classica”. Con conseguenti riduzioni (in percentuale) dello share di investimenti pubblicitari allocati alla televisione.

Fenomeni quali l’uso dei videoregistratori, dei registratori digitali o dei servizi di “video on demand” (o quasi) offerti dagli operatori via cavo hanno portato milioni di telespettatori americani a guardare gli show “in differita” – e nel 90 per cento dei casi saltando gli spot.

Uno stimolo economicamente forte
Quello che è chiaro è che la TV, almeno nei prossimi anni, non potrà di certo venire sostituita come media chiave per le pianificazioni pubblicitarie; ma che il suo peso (e i suoi listini) rischiano di modificarsi e quindi di portare conseguentemente riduzioni nei fatturati generati dalle emittenti in termini di raccolta pubblicitaria.
Un pericolo che sta quindi stimolando molti operatori a investigare su modi nuovi di fare comunicazione in TV…