venerdì, ottobre 15, 2010

In Rete, non conta cosa fai, conta chi sei?

L’esperienza quotidiana del mio lavoro di planner si scontra spesso con delle richieste apparentemente sensate da parte delle aziende. 

In questo periodo, in cui va di moda il socialmedia-coso, sono tipicamente richieste del tipo “mi studia un’operazione su... (Facebook, Foursquare, Twitter, quel che volete)?”. Ci sarebbe a questo punto da discutere che cosa succede quando chiedo “perché?”, ma lasciamo perdere. 
Ora, la richiesta è solo apparentemente ragionevole - o meglio, lo è se si sa cosa si chiede e quali sono le conseguenze.

Già mi immagino che qualche lettore sarà partito lancia in resta a scrivere un acidissimo commento che spiega all’imbecille (io) che i social non sono una moda, ma un fenomeno che cambia la nostra società eccetera eccetera.Vero. 

D’altra parte sono anche una moda, cioè uno di quei fenomeni cui si aderisce acriticamente, magari senza comprenderli appieno. Ed ecco allora che escono queste richieste.Il modello sottostante è sempre lo stesso: l’azienda resta quello che è, non cambia filosofia, prodotti, modus operandi, non cambia il proprio modo di essere sul mercato e sopratutto non cambia il proprio modo di percepire e considerare i propri clienti/prospect. E non cambia la relazione con loro. Ma dato che va di moda e forse è un’opportunità per vendere di più, si tenta la carta del social-coso invece che di un’altra operazione più classica (che generalmente è molto più costosa).


Fare il social diventa quindi fare “una cosa social”. Che ci permetta di essere percepiti come social-contemporanei. Di spingere una promozione. Di dopare un programma di marketing. Il tutto, rigorosamente senza cambiare essenza. Un po’ come andare a baciare i bambini di fronte alle chiese e stringere la mano al parroco, senza far troppo mistero del proprio sostanziale ateismo di fronte agli elettori. Qualcuno o tanti ci possono anche cascare o stare consapevolmente a questo gioco. Che, essendo sostanzialmente una promozione, funziona generalmente nel breve periodo: i risultati sulla distanza si riassorbono senza aver lasciato risultati permanenti, con un impatto neutro o poco positivo sulla percezione della marca.

Non voglio dire che occorra essere integralisti, le aziende molte cose non le possono fare. Non possono, nel giro di periodi brevi, cambiare radicalmente la propria essenza, almeno non senza cacciare un sacco di gente e prendersi dei rischi notevoli, buttando nella spazzatura esperienze consolidate negli anni. Anche se magari funziona sempre meno, è rischioso buttare tutto quello che funziona per gettarsi in esperimenti in aree in cui la propria esperienza è zero. Specialmente ricordando che l’esperienza si fa solo commettendo errori. Errori che possono costare cari.

D’altra parte restare quel che si è non porta lontano, molte volte. Qualsiasi strada inizia con il primo passo. A volte con un balzo, ma c’è chi a saltare da fermo può anche rompersi una gamba. E tuttavia fare dei passi senza convinzione non porta lontano sulla strada. Di conseguenza, abbandonando la metafora un po’ tolkeniana, porta a dare ritorni insoddisfacenti per la propria operazione “Social” (del tipo apri, chiudi, e poi ce ne inventeremo un altra.. e tra una e l’altra ovviamente mettiamo in animazione sospesa il nostro rapporto sociale con il pubblico).

C’è da ragionare sul fatto che spesso le operazioni di Social che si fanno più sentire sono quelle in cui c’è un’azienda che ha un’immagine, una percezione particolare. Lo vedo su Twitter: quali sono le persone o meglio i personaggi che seguo più volentieri? Quelli che danno spunti utili, concreti (e quindi hanno il mio rispetto) o quelli che si sanno rivolgere al pubblico in una certa maniera (lo sapete già , i miei preferiti sono, tra gli altri, la Regina Rania, Dita VonTeese e da un po’ anche Jorge Lorenzo). La questione, in fondo non è essere social o non esserlo, ma è che tipo di azienda si è. Date un’occhiata a che razza di linea aerea è Air New Zealand. Poi confrontatela con qualunque altro vettore aereo a vostra scelta. Oppure Cointreau, che ha scelto come testimonial proprio Dita VonTeese (così come ha fato l’acqua Perrier in Francia) e che apre anche un club privato per i suoi consumatori proprio da lei decorato.

Sono tutti esempi di aziende che sanno dare una percezione diversa, che in qualche modo vivono il proprio business e operano in modo diverso. Di conseguenza, quando fanno qualcosa, anche sui social media, godono facilmente di più attenzione - perché sono aziende interessanti, per cui vi sono pregiudizi positivi - si ritiene (ci si conta, si spera) facciano qualcosa di interessante. Che ci stupisca. Che ci gratifica quando diventiamo loro “fan” e ci schieriamo dalla loro parte viralizzando un messaggio.
Il che è molto diverso, da diventare fan di un’azienda neutra o un po’ polverosa che ha fatto l’ennesimo concorsino su Facebook.

Il problema è sempre lo stesso: nell’era dell’attention economy, della parità dei prodotti, della interscambiabilità delle offerte... “Do you have something interesting to say?” Che tradotto omofonicamente potrebbe essere  "hai qualcosa di interessante, in quello che sei"? ;-)

1 commento:

Gianni ha detto...

Secondo me il punto può essere sintetizzato in questo: "la comunicazione è un processo".