Diciamocelo francamente. Non c’è più il lusso di una volta.
Racconta Dana Thomas, autrice di “Deluxe. Come i grandi marchi hanno spento il lusso”, di una sua intervista al presidente di Louis Vuitton: in merito al fatto che il 40 % dei giapponesi possedesse un oggetto Louis Vuitton, il presidente della maison ripose che quello a cui pensava era il 60% dei giapponesi che ne era privo.
Racconta Dana Thomas, autrice di “Deluxe. Come i grandi marchi hanno spento il lusso”, di una sua intervista al presidente di Louis Vuitton: in merito al fatto che il 40 % dei giapponesi possedesse un oggetto Louis Vuitton, il presidente della maison ripose che quello a cui pensava era il 60% dei giapponesi che ne era privo.
Se una volta si parlava di ricchi, oggi si parla di Mass Affluent. Dove si parlava di lusso (vero), oggi si parla di masstige.
E’ la democratizzazione del lusso – e quando si democratizza per dare a tutti l’accesso al caviale si finisce per mangiare tutti uova di lompo, maledizione. In effetti, cosa consumino i ricchi, quelli veri, a noi comuni mortali non è dato saperlo.
Abbiamo un’idea in merito ad auto, aerei e imbarcazioni – ma cosa mangino, bevano, in che lenzuola dormano possiamo solo immaginarlo. Se una volta si parlava di ricerca scientifica della scarsità, oggi certe marche dell’Empireo sono diventate di manica più larga, proponendoci prodotti cari ma in fondo accessibili a molti.
In questo contesto arriva poi tra capo e collo questa faccenda di Internet come strumento di marketing e comunicazione. Tanto per cominciare, c’è da domandarsi se per un prodotto di lusso sia opportuno; anni fa si diceva che un prodotto di lusso non dovesse comunicare. I suoi clienti, veri conneisseurs, avrebbero già dovuto conoscere la marca – o sentirne parlare in forma riservata sorseggiando un Planters Punch in un club di Saville Row. Esclusività, riservatezza, tenersi lontano dalle masse.
Masse che oggi si sono appropriate di prodotti e marche percepiti come appartenenti di diritto agli happy few. In uno slancio di adesione a stili di vita superlativi. Io sono quel che consumo, e mi da’ dunque una sensazione di calore possedere un oggetto “esclusivo” (disponibile nei migliori negozi a soli 499 Euro); mi fa piacere che il mondo mi osservi e riconosca in me, attraverso il possesso e l’uso di prodotti di certe marche, un mio gusto, una mia capacità di scegliere. Che mi immagini appartenente ad una schiatta di privilegiati che pasteggia a crostini e Saint-Cotillon de la Seur cuvèe 1963.
Messe in Rete, certe marche hanno accettato il paradosso di dover comunicare, sposando un trend generalizzato di dire il meno possibile. Forse giocando sul paradigma che “chi sa” non ha bisogno di comunicazione, molti siti trovano la propria anima in eleganti cataloghi, beauty pack shots, quattro informazioni di base del prodotto, accompagnati da pratici servizi di e-commerce. Un understatement che intride talvolta anche la comunicazione di marca, delegata a poche pagine di informazioni sulla storia dell’azienda, qualche vecchia foto,una cartella stampa. Poca roba, si vedono siti di imprese metalmeccaniche che sanno dare di più in termini di orgoglio, unicità, ricchezza e profondità, prove concrete e testimonianze dell’essere aziende uniche ed irripetibili.
Insomma, poca emozione. O meglio: forse emozione per chi davvero sa e non ha bisogno che gli si spieghi. Ma in un mondo dove la ricchezza pare spostarsi verso paesi ad Est e a Sud, dove un certo tipo di cultura è arrivata da poco, dove parliamo a nuove fasce di clientela dalla cultura forse non eccessivamente sofisticata, potrebbe essere rischioso dare per scontato che esista un substrato immaginario cui basti fare solo obliqui riferimenti.
D’atra parte il lusso è un’orgogliosa negazione della razionalità, uno spendere in cambio di valori immateriali, di gratificazioni generate da una superiore craftmanship. Un senso di appagamento nel sapere di possedere un orologio che ha richiesto al produttore mesi di schiene curve e a noi migliaia di euro… per fare dal punto di vista funzionale lo stesso lavoro di un digitale che troviamo nell’ovetto Kinder.
Dietro ad un orologio, un gioiello di alta marca, un accessorio di profondo artigianato c’è un mondo – o almeno ci dovrebbe essere per giustificarne il premium price; anche perché, di nuovo, si rischia a pensare che classi di Nuveau Riches (che brutta parola) sappiano ad occhio distinguere ed apprezzare valori di sofisticata manualità e genialità, soprattutto di fronte all’invasione di cloni, imitazioni che ad un occhio distratto (e a volte nemmeno tanto tale) risultano indistinguibili dall’originale. Se conta solo apparire, se il mondo che c’è dietro al prodotto si condensa solo in un logo, il falso va bene quanto l’originale.
Navigando su Internet alla ricerca del lusso ho talvolta sentito la mancanza di una comunicazione che costruisca davvero la marca, che ne racconti una storia, un mondo, che mi spieghi perché debba emozionarmi quando approccio dei nomi che un tempo solo diafane contesse russe emigrate a Parigi osavano pronunciare a fior di labbra. Ma forse, in quanto aspiranti ricchi, certe atmosfere, certe percezioni di marca tocca a noi costruircele – in fondo, se vogliamo esserne partecipi, anche noi dovremo ben fare la nostra parte nel grande gioco del mondo del lusso…
1 commento:
Ciao Roberto,
innanzitutto complimenti per la tua accurata e intelligente analisi. Mi occupo di comunicazione e marketing, attività che ho portato avanti per più di un decennio fino a che non ho scoperto (anche grazie a vecchie foto di famiglia) che la mia vera vocazione è il disegno e la moda. Ma non la moda """"lussuosa"""" che nomini tu nel tuo post, piuttosto qualcosa di alternativo. Da quasi sei anni lavoro ad un progetto che due anni fa ha visto la luce con il business plan e, successivamente con un nome. Attenzione, Roberto, un nome e non un marchio anche se, penso sia talvolta inevitabile, che questo si venga di fatto a creare. Un nome come ogni persona ha, ma un nome che non da un'etichetta a quella persona, ma ci permette solo di riconoscerla e di chiamarla...per nome appunto. Questo nome è WHAT'S MORE ALIVE THAN YOU. In realtà è un progetto che vede coinvolte persone di tutte le età (mi son stufato a quaranta e passa anni di non poter partecipare a nulla con le mie idee) di 82 paesi nella realizzazione di una particolare collezione artistica di calzature, borse e accessori, che saranno poi prodotti in Italia. Una sorta di international design, product in Italy. Ti invito a visitare il sito www.wmaty.com perché mi piacerebbe avere un tuo spassionato parere. Ho lottato per anni con aziende di tutti i tipi, da piccole a multinazionali, per cambiare il loro approccio al mercato, per offrire loro una diversa prospettiva, ora ci proviamo con questo progetto. Il primo concorso ha preso il via a maggio e si è chiuso il 31 luglio con la partecipazione di 850 università da 54 paesi. Tutto avviene attraverso internet e l'idea è quella di creare un lusso diverso, il lusso di distinguersi.
Con ammirazione,
Mario Innocente
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